Body Positivity: evoluzione o ipocrisia?
- M. L. Barbazza
- 26 apr 2023
- Tempo di lettura: 1 min

Ciospa, cozza, scorfana, racchia, mostro, strega… la donna brutta ha più nomi di Dio, scrive Giulia Blasi nel suo libro “Brutta. Storia di un corpo come tanti” (Rizzoli, 2021) dove si parla solo del corpo più politico e militarizzato in quasi tutte le culture e religioni: il corpo femminile.
Luogo su cui leggi, divieti, desideri, violenze e controlli, standard e pregiudizi, canoni e modelli, idealizzazioni e paure si sono succeduti ed alternati, a volte intrecciandosi, e rendendo l’ideale della bellezza femminile quanto di più incoerente e mutevole si possa immaginare. Un ideale che ha sempre avuto asticelle esasperate e irraggiungibili: troppo grassa, troppo magra, troppo piccola, troppo alta, fianchi troppo larghi o troppo stretti, seni inesistenti o floridissimi, volumi o corpi sottili quasi elfici…
Non sempre sono state le donne a disegnare lo skyline della perfezione ma, spesso, troppo spesso, sono state complici di questo processo faticosissimo di adeguamento al modello stereotipato più adeguato e riconoscibile.
E, se la bandiera del body positivity è poco convincente, dall’altra parte l’accusa di cadere nell’ipocrisia è altrettanto facile.
Forse è utile fare lo sforzo di uscire dalla dicotomia, abbandonando parole come accettazione o diversità per guardarne un’altra: varietà. Se il femminismo ha sputato su Hegel, non possiamo noi oggi sputare sui canoni estetici?
Una parte di noi vorrà sempre essere vista, apprezzata, amata e desiderata da tutti perché ci specchiamo tutte (tutti) nello sguardo dell’altro. Aggrappandoci al positivity della nostra specialità, accarezzando con ironia le nostre imperfette sfumature e investendo, speranzose… sulla genetica.
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